Cercare l’inutile

Verso la metà degli anni ’60, avevo circa 15 anni, acquistai, per la prima volta e con notevole impegno economico, i primi due libri della mia vita. Una decisione sofferta ma assolutamente voluta. Due libri che ricoprirono il ruolo di pionieri, precursori di una lunga serie e che avrebbero, peraltro, influito molto sulla mia futura coscienza. Fu una scelta difficile ma indovinata. Il primo, scritto da Alessandro Levi, si intitolava “Ricordi dei Fratelli Rosselli”, un libro edito nel 1947 dalla Nuova Italia Editrice di Firenze a cura di Piero Calamandrei. Un libro fondamentale, almeno per me, che avevo raggiunto la licenza media non in una scuola qualsiasi ma proprio presso quella storica Scuola Media Statale Fratelli Rosselli, in Borgo San Lorenzo, senza per questo conoscere, non dico a fondo ma nemmeno tanto, cosa significassero Carlo e Nello Rosselli per il nostro Paese. Col tempo avrei imparato a conoscere, e a studiare, anche Piero Calamandrei.

L’altro libro, e veniamo a noi dopo questo breve preambolo che non ha niente a che vedere con l’argomento di cui discuteremo, era scritto da John Hunt e si intitola “La conquista dell’Everest”, edito nel 1954. Una storia che mi affascinava e mi avvicinava al mondo dell’alpinismo. D’altronde conoscevo già la Montagna, sciavo dall’età di cinque anni grazie alle possibilità economiche di due miei cugini che, ogni domenica o quasi, mi portavano sulle nevi dell’Abetone. Quel libro fu, tuttavia, il mio primo passo nei confronti di una certa cultura dell’alpinismo anche se negli anni avrei accusato più di un dubbio.

Scelsi il libro di Hunt perché, certo, l’Everest è la montagna più alta del mondo e conserva quindi un certo fascino ma anche perché raccontava la storia di un’avventura che, ancora in quel periodo, aveva connotati precisi e cioè i tratti fondamentali di un alpinismo di conquista, parte integrante di una cultura allora diffusa, che non raffigurava certo l’inutile ma qualcosa di rilevante. La cima era l’obiettivo primario, non raggiungerla era il simbolo di un certo tipo di fallimento nonostante nessuno mettesse in discussione la quantità di sforzi profusi per raggiungerla. Molte spedizioni dell’epoca erano finanziate da organi di stato, in molti casi attraverso contributi elargiti ai rispettivi club alpini nazionali. Era, insomma, motivo di compiacimento popolare a dimostrazione di un primato nazionale visibile. Ancor più sotto i regimi. Cito, ad esempio, l’incontro (1938) che Adolf Hitler volle riservare ai vincitori della parete nord dell’Eiger: Heckmair, Vörg, Kasparek e Harrer: i primi due di nazionalità tedesca mentre i secondi erano austriaci. Ma mentre Heckmair, peraltro un alpinista che sta nell’Olimpo dei migliori, mantenne le distanze dal nazismo (tanto da essere mandato al fronte russo per non essersi inchinato davanti al Fuhrer) così non si può dire di Harrer che vestì la divisa delle SA prima, della SS dopo e fu un acceso sostenitore del nazismo e della relativa propaganda. Concludo solo dicendo, e non dico niente di nuovo, che per la salita all’Eiger Harrer non prese mai il comando della cordata, non si era portato con sé nemmeno un paio di ramponi, credo non ne sarebbe nemmeno stato capace. Ironia della sorte vuole che dei quattro sia il più conosciuto e ricordato solo per essere autore di “Sette anni in Tibet”. Non dimentichiamo, solo per completare l’argomento, che anche altri regimi premiarono qualche alpinista, ad esempio Emilio Comici fu insignito del titolo di Podestà di Selva in Val Gardena. Non so quanto ci credesse …

Ma torniamo a noi.

E torno sul tema dell’Everest e sul significato di “cima” non trascurando il fatto che per tutta una serie di eventi la cima fu raggiunta il 29 maggio del 1953, solo tre giorni prima che Elisabetta fosse incoronata regina d’Inghilterra. Si … insomma del Commonwealth. Un omaggio che pareva avere il sapore del buon auspicio, e lo ha avuto, un dono scaramantico fattole dai propri sudditi anche se Edmund Hillary, per quanto suddito, non era proprio inglese, Tenzing Norgay tanto meno. Non è finita qua, nemmeno sappiamo se fu davvero Hillary il primo a calpestare la cima dell’Everest. Una sorta di accordo fra i due ci ha impedito di conoscere questo particolare. Un particolare del quale non ci interessa granché eppure, per i tempi, nemmeno di poco conto. Hanno sempre sostenuto di aver raggiunto la cima insieme, a braccetto, come se a quasi 9.000 metri di quota, con un notevole fardello sulle spalle e indosso, sia possibile passeggiare a braccetto come facciamo noi sotto la Loggia della Signoria. Ma so bene di essere profano in materia e quindi perdonatemi. Molti sanno come la penso … anzi la pensiamo.

Irvine e Mallory

Mi affascinò molto di più, negli anni seguenti, l’incredibile storia di George Mallory. Se per John Hunt la cima non rappresentava l’inutile ma un obiettivo concreto per Mallory, lui sì inglese, nato a metà strada fra Manchester e Liverpool, era più semplicemente il fine del momento. Quando, nel 1924, lasciò il campo del Colle nord insieme ad Andrew Irvine per raggiungerla pensò sicuramente che il sogno si stesse avverando. Purtroppo, non ne sappiamo di più. Lo stesso Mallory dichiarò che, se avesse raggiunto la cima vi avrebbe lasciato una foto della moglie. A distanza di trent’anni Hillary disse, e non poteva essere diversamente per più motivi, di non aver trovato alcuna foto sulla cima dell’Everest come se una foto potesse resistere per ben trent’anni su una cima di 8.848 metri di altitudine. E se anche l’avesse trovata? Mi piace tuttavia pensare che Mallory quella cima l’abbia invece davvero raggiunta con buona pace di tutti.

Nel 1961 viene dato alle stampe un libro di Lionel Terray intitolato “I conquistatori dell’Inutile”.  In Italia arriverà molti anni dopo. Un libro, a mio giudizio, monotono eppure essenziale in alcune sue espressioni quali: “conquistare l’inutile è l’apparente dichiarazione di un fallimento. Che in realtà nasconde il gesto nobile di un agire gratuito, lontano dalle logiche quotidiane. Solo grazie a quell’inutile si può mettere a rischio la vita, si possono affrontare fatiche immani. Si può arrivare al limite, per toccare una cima”. È da qui che possiamo comprendere come la cima non sia solo un luogo, per quanto sofferto, ma l’obiettivo di una vita. Come se la cima, e concordo, non sia solo fine a se stessa ma che realizzi in chi la vince un senso alla vita, alle proprie aspettative, al proprio ego. Una forma di autostima che va oltre la praticità della vita, della famiglia, del lavoro. Marco Albino Ferrari scriveva nella prefazione al libro in versione italiana: “Quei tipi un po’ bohémien dall’aria ispirata come Lionel Terray non sono matti che mettono in gioco la loro vita per il solo gusto del rischio. Sono uomini che fanno sognare.» Aveva ragione.

Nel settembre del 1972 in Italia accade qualcosa. Qualcosa che andava a infrangere determinati equilibri, Gian Piero Motti scrive sulla Rivista Mensile del CAI un articolo dal titolo “I Falliti”. La velocità con cui si passa dai “conquistatori” ai “falliti” è improvvisa e inaspettata; eppure, illumina l’ambiente alpinistico con quello che sarà un movimento chiamato “il Nuovo Mattino”, fondato nel 1974, un modo nuovo di interpretare l’alpinismo. Un modo sfacciato rispetto le vecchie teorie e la loro retorica compreso il modo di concepire la “cima”. Scrive Enrico Camanni, scrittore che non ha bisogno di presentazioni, sul periodico del CAI Torino (Monti e Valli) in occasione del quarantennale della morte di Motti (22 giugno 2023) che il Nuovo Mattino non nasce solo “ricavando dall’alpinismo californiano e dalla mitica via di Harding e Caldwell – The wall of the early morning light (El Capitan, Yosemite, 1970) – una sorta di legittimazione domestica per rompere con il passato, quanto perché dà voce, forma e dignità letteraria a un fenomeno che forse, diversamente, si sarebbe risolto in qualche scappatella psichedelica e in una gran bevuta collettiva”. Motti si rende conto che la ricerca continua di nuove e sempre migliori prestazioni, con tutto ciò che comporta in termini pratici e mentali, è causa continua di esasperazione, si rende conto che tutto ciò non porta da nessuna parte, che tutto diventa inutile. Ecco la parola chiave.

Gian Piero Motti

Scriveva Motti: “Molti si illudono di essere qualcuno, credono di essere importanti solo perché nell’alpinismo hanno raggiunto i vertici” senza rendersi conto che “se li inserisci in un differente contesto sociale […] li vedi incapaci di sostenere un dialogo qualsiasi […] di intrecciare relazioni umane”.

Questo il motivo per cui Camanni prosegue affermando come i nuovi arrampicatori chiedessero di “scrollarsi di dosso l’alpinismo eroico ancora ben radicato nella tradizione piemontese: per esempio il rito della vetta, e con esso il bagaglio di croci e di morti legato alla simbologia sacrificale dell’ascensione; oppure l’immagine dell’alpinista duro e invincibile, che spesso nella vita urbana e quotidiana si rivela irrealizzato e insicuro”.

Toccante il ricordo che Camanni fa di Motti “Certe volte ci faceva toccare il cielo con il pensiero, altre volte aveva la pesantezza dell’uomo inquieto, lacerato, psicologicamente fuori misura, anche se conservava sempre la lucidità delle menti superiori”. Per poi concludere ricordando che “Gian Piero aveva già programmato la data e il luogo in cui morire, nelle sue valli di Lanzo. Il posto lo conosceva fin da bambino: aperto e solitario. Quanto al giorno aveva scelto il solstizio d’estate, quando il sole sale più in alto sulla cresta del Bellavarda e la notte è più dolce e breve”. Bellissimo.

Non mi spiego come Lino Fornelli, sempre sulle pagine dello stesso periodico del CAI Torino abbia scritto qualche anno fa: “Motti proveniva da una famiglia benestante che gli ha permesso di studiare, di formarsi una buona cultura e di godersi il tempo libero, tempo che dopo gli studi dedicherà interamente all’alpinismo. Era il tipico atteggiamento di un intellettuale che non aveva alcuna esperienza di vita, a parte l’alpinismo, che non si rendeva conto di cosa significasse lavorare duramente, sin da giovanissimi, e non avere i mezzi per studiare”.

Lo stesso Ugo Manera scriveva su Scandere 1989: “Era uno dei pochi giovani che sin dagli anni ’60 già possedeva un’automobile per recarsi in montagna. Possedeva sempre i migliori materiali, e quando era in giro per arrampicare amava trattarsi bene scegliendo buoni ristoranti per pranzare ed alberghi anziché campeggi per dormire”.

Non entro nel merito, mi guardo bene dall’esprimere qualunque giudizio. Mi limito soltanto a domandarmi cosa diavolo c’entri mai la vile moneta con l’alpinismo. Se Gian Piero era nato ricco di famiglia beato lui, magari fosse capitato a me. L’alpinismo è altra roba …

Non ho dubbi che ad influenzare Motti, come già detto, sia stato anche un certo tipo di alpinismo praticato in California di cui Warren Harding è stato un grande rappresentante e, per molti, un mito. Ne so qualcosa. Giuseppe Popi Miotti scrisse, anni fa, a proposito di Warren che “Per alcuni di] noi basta quel nome a suscitare emozione. Nei nostri occhi passa un lampo d’intesa ed un sorriso malizioso. A volte sbirciando chi ci sta vicino, ed arrampica, il sorriso diventa complicità: noi sappiamo, noi capiamo, noi in qualche misura abbiamo condiviso e condividiamo […] Detto questo, il vecchio “Batso” ritorna nelle nostre menti e nei nostri cuori affaticati di montagna, di passioni, di amori e malumori… di sogni; monumento ribelle contro i benpensanti, le morali e i moralisti, contro tutti i buoni propositi, le chiese e le parrocchie, contro i farisei ed i conflitti d’interesse di tasca e di spirito. Stella fissa per chi non vuole mollare e crede che ci sia sempre una via d’uscita anche nella situazione più disperata. Caro Warren, protagonista di monumentali scalate e alluvionali bevute, sei di un’altra epoca, di un’altra cultura, ma non fa differenza. Ci insegni la tranquilla, pervicace resistenza alla stupidità, compresa la nostra, e il tuo messaggio resterà per tutti quelli che lo vorranno cogliere”. Proprio quello che avrei voluto scrivere io …. se ne fossi stato capace.

Warren Harding

Concludo questo viaggio nell’inutile, compreso quanto ho scritto, con una frase di Jean-Paul Sartre: “Quando l’uomo capisce che è inutile voler capire, ha capito tutto ciò che vale la pena di capire”. Maestro del relativismo e cioè di quella dottrina filosofica che nega l’esistenza di verità assolute sembrava ricordarci come anche nell’alpinismo e nella ricerca dell’inutile vi fosse una buona dose di componente integrante della persona singola.